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Le idee del volgo intorno alle malattie e i mezzi di cui esso si serve per prevenirle e combatterle costituiscono, nel loro complesso, quella branca del folklore che è detta "medicina popolare".
Il popolo calabrese, come quello di ogni altra regione, pur apprezzando l'utilità della scienza medica posto di fronte a malattie la cui origine era e rimaneva per esso misteriosa, spesso faceva ricorso alla medicina empirica ed alle credenze popolari per la cura e la ricerca del "responsabile" della malattia.
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Della malaria (frevi a friddu, terzana, quartana, frevi di malaria) che per lungo tempo pesò sulla sua vita e sul suo destino, il popolo calabrese ben ne conosceva i sintomi: il brivido iniziale della febbre, la periodicità e la sua caduta con sudore; invece, più oscura era la ricerca del "responsabile". Chi dice di aver preso la febbre bevendo na ciarla oppure per aver abusato r'amure (more), chi invece vede come probabili elementi di trasmissione della malattia i miasmi, la putrefazione vegetale e l'acqua stagnante. Le stesse sentenze proverbiali, d'altronde, richiamavano alla prudenza riguardo all'acqua stagnante: acqua che scorre non porta veleno, acqua che stagna o puzza o magagna. Non mancavano poi i riferimenti agli insetti o alle zanzare quali trasmettitori dell'infezione: la malaria è annunciata da zampaglioni (zanzare) che in grande quantità si agitano nell'aria. Il "responsabile" delle forme meno preoccupanti di malaria veniva ricercato nell'ambiente, ma quando essa si manifestava nelle sue forme più gravi e mortali il popolo, ignorante e superstizioso, attribuiva l'origine della malattia a fattori intrinseci dell'organismo. La malaria diventava sinonimo di "malìa" e la ricerca del "responsabile" si proiettava fuori del mondo naturale. La causa della malattia si attribuiva così alla iettatura, al malaugurio, alla fascinazione ed infine, a spiriti demoniaci o comunque malefici. In questi casi la cura consisteva nel neutralizzare o nel prevenire i supposti fattori morbifici con gli adatti mezzi suggeriti dagli esperti. La fattura può pigliare l'aspetto del paludismo scriveva Pasquarelli e in questi casi solo il ricorso alla magara (fattucchiera) può avere ragione della febbre. Infatti, in Calabria si ricorreva ad una vasta gerarchia di magare che avevano il compito non solo di neutralizzare le cause che avrebbero determinato la malattia, come la iettatura e il malaugurio, ma anche gli effetti cioè la malattia stessa.
La medicina popolare riprendeva antichi riti terapeutici di carattere magico-religioso che operavano per suggestione ed erano talvolta interessanti reminiscenze di una medicina primitiva di cui il popolo è sempre stato il depositario. Si ha così l'uso di bere il vino con l'infusione di tizzoni ardenti scavati la notte di San Lorenzo, o di ligare al paziente i rospi, le lucertole, e le noci e di accostargli alcune piante o animali sulla milza o di mangiare teste di vipere fritte con l'assenzio. Il popolo, insomma, non ebbe ripugnanza a mettere a profitto le più schifose indicazioni pur di liberarsi di un male che minava tutti gli organismi: a freve d'ogni hiurne accire l'omme e lu lione, si legge nei proverbi delle zone malariche. Non ci fu bevanda o preparazione che fosse ritenuta troppo nauseabonda da propinare e tutto fu tentato con la più cieca fede. A Reggio Calabria si facevano deglutire tre cimici da letto vive avvolte in ostia o carta velina; a Cassano allo Ionio e Bisignano si adoperavano i boli di ragnatele fuligginose o si faceva bere l'urina del febbricitante stesso o il succo di alcuni insetti. Fra i contadini era frequente per sette mattine bere in un bicchiere di vino il sangue polverizzato ed infornato di lepre oppure affidarsi alla credenza che se una persona affetta da quartana nella sera di Natale, senza farsi riconoscere, elemosinasse per nove porte e consumasse essa sola tutto il raccolto nei giorni successivi, sarebbe sicuramente guarita.
Nelle pratiche antimalariche avevano un ruolo importante anche le preghiere rivolte ai santi taumaturgici e ai protettori specifici della febbre. Si svolgevano così pellegrinaggi e processioni soprattutto nei periodi di massimo contagio quasi ad invocare la protezione divina sulla stagione apportatrice di epidemia: così accadeva a Cosenza dove si venerava la Madonna della Febbre.
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