C’è un dipinto nel Duomo di Cosenza, e propriamente sul soffitto della Cappella dell’Arciconfraternita d’Orazione e Morte, che viene sbrigativamente enunciato dalle guide come pertinente al tema dei Fratelli Maccabei, di cui si narra nel Secondo libro dei Maccabei (VII,1-42) dell’Antico Testamento.
Ma basta già osservare, in maniera accorta, il dipinto per capire che si tratta d’altro: d’un soggetto, ovverosia, affatto conciliante con la funzione peculiare che assolveva la cappella, destinata al culto ed al suffragio delle anime dei morti.
Il tema dei Fratelli Maccabei si risolve, infatti, nell’esaltazione del martirio di sette fratelli; che, assieme alla loro madre, furono trucidati da Antioco IV Epifane, circa l’anno 168 a.C., “per aver osservato con invitta fede la legge del Signore”, come recita il Martirologio Romano. E la loro passione di martiri giudei fu interpretata dai Cristiani come precorritrice di quella prestata in seguito dai martiri del Cristo.
Il relativo schema iconografico, piuttosto raro in verità, trova un esempio illustre tanto da farne un corpus, nel Martirio dei Maccabei della chiesa di Santa Felicita a Firenze; sviluppato in epoche diverse da Neri di Bicci ed Antonio Ciseri, in cui balzano di fatto alla nostra osservazione dei corpi straziati dal martirio.
Nel dipinto cosentino, viceversa, spicca un cavaliere col suo seguito, che incede maestoso entro un campo di battaglia; mentre una scritta, sovrimpressa su un pilastro, recita in latino: “Sancta et salubris est cogitatio pro defunctis exorare ut a peccatis solvantur” (Santo e salutare è il pensiero di pregare pei defunti, perché essi siano sciolti dai peccati).
E si tratta, a ben vedere, di Giuda Maccabeo; ritratto, qui, nell’episodio di cui si fa menzione nel Secondo libro dei Maccabei (XII,38-45), il cui paragrafo ha per titolo “Il sacrificio per i morti”.
Nella spianata della città di Odollam, Giuda Maccabeo, alfiere della rivolta ebraica contro l’oppressione del re pagano Antioco IV Epifane, giunge vittorioso coi suoi uomini, per dare degna sepoltura ai soldati nemici caduti in battaglia. Nell’eseguire le pietose esequie, egli s’avvede come ognuno di loro celi sotto il manto un idolo pagano: avverso certo alla credenza della religione ebraica, ma pur sempre indizio d’un sentimento di pietà che quei soldati nutrivano e per il quale affrontarono la morte.
Giuda scorge in questo evento un segno certo della volontà di Dio: “giusto giudice” che commuta in punizione ogni oltraggio alla propria maestà. Ma agendo “in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione”, Giuda compie un gesto per molti versi sorprendente: chiede, cioè, al suo popolo di pregare per quei pagani, per impetrare la redenzione del loro stato di peccato.
E, nel fare ciò, come avverte l’esegesi del pensiero ebraico, egli innova una pratica del culto dei defunti, fondata sul concetto della loro remissione dei peccati per opera esclusiva e salutifera della pia orazione. Pratica che viene poi acquisita nel Cristianesimo, per fondare in prospettiva la dottrina stessa del Purgatorio come grado intermedio d’attesa penitente della grazia divina.
Un significato alto ed esemplare, dunque, quello espresso nel dipinto della volta della Cappella d’Orazione e Morte del Duomo di Cosenza. Che ci sembra giusto restituire al suo depositario: quel Giuda Maccabeo, che ha preteso di pregare, indistintamente, per qualunque peccatore: perché la prossima risurrezione sia appannaggio di tutti.