L’interno della chiesa, che oggi funge da cappella cimiteriale, è a navata unica e presenta strutture murarie in buono stato di conservazione. Lo stesso, però, non può dirsi del suo patrimonio artistico, gravemente rimaneggiato per motivi conservativi e di sicurezza; quest’ultimi adottati per ovviare ai continui saccheggi che hanno privato la chiesa della sua effettiva bellezza e del suo valore. Tra le opere appartenenti alla chiesa, di sicuro la più pregevole è l’altare maggiore; del quale, al momento, si conserva soltanto la grande ancona settecentesca composta da cona a retablo, articolata in tre campate da quattro colonne lignee poggianti su piedistalli, trabeazione coronata da ricca cimasa e riquadro a sezione unica. Quella dell’altare a retablo è una tipologia assai adottata ed apprezzata dai Francescani, specie dai Cappuccini; di fatto tale schema si ripete, seppure con qualche variante, in tutte le chiese dell’ordine. Al centro della grande ancona era incorniciata la tela raffigurante l’Immacolata; la cui coronata figura, avvolta da un manto azzurro, si staglia dal fondo dorato, attorniata da angeli e dai simboli mariani. La patrona e regina dei Francescani, eretta su una luna, calpesta il serpente, simbolo del male sconfitto. Nella sezione di sinistra dell’ancona, divisa in tre scomparti, erano raffigurati: al centro, a figura intera, San Giovanni Battista; in alto, a mezza figura, San Ludovico da Tolosa; ed in basso, sempre a mezza figura, un Santo Francescano. Nella sezione di destra, invece, erano presenti: al centro, a figura intera, San Francesco d’Assisi; nello scomparto superiore, San Francesco di Paola; e, in quello inferiore, Santa Chiara; entrambi raffigurati a mezzo busto. Nel riquadro in alto, compariva la vigile figura dell’Eterno Padre, affiancato da due angeli reggenti un cartiglio recante la scritta «Tota pulchra es, amica mea, et macula non est in te» («Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia»). Il polittico, conservato attualmente presso la Soprintendenza di Cosenza, venne attribuito inizialmente dalla Di Dario Guida all’artista siciliano, ma vissuto e formatosi a Napoli, Giovan Bernardo Azzolino (Cefalù, 1572 circa – Napoli, 12 dicembre 1645). Successivamente le tele furono assegnate dal Leone De Castris ad un altro artista operante a Napoli, Fabrizio Santafede (Napoli, documentato dal 1576 al 1623); il cui stile risente di una triplice impronta: inizialmente, manieristica toscana, filtrata dal senese Marco Pino; successivamente, caravaggesca; ed infine, quella composta e aggraziata dei pittori riformati |